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FASE 2: Ritorniamo al futuro

Di Patrizia Di Santo

In pochissimi giorni, dal 11 al 13 marzo 2020, le Pubbliche Amministrazioni del nostro Paese sono state costrette a avviare il lavoro agile straordinario per un numero molto elevato del proprio personale: dal 50 % al 90% dei dipendenti sono stati messi in lavoro agile per garantire la continuità dei servizi e, nello stesso tempo, limitare il contagio. Questo significa aver realizzato in 2 giorni una mole di lavoro enorme e, sebbene la normativa abbia permesso modalità semplificate per far fronte all’emergenza, aver affrontato problemi e criticità organizzative, procedurali e tecnologiche che fino ad allora non erano state affrontate e risolte. 

Come descritto dalla newsletter n.1 ,che ha tracciato l’iter normativo che ha portato dalla sperimentazione alla ordinarietà il Lavoro Agile, i provvedimenti legislativi relativi alla gestione dell’emergenza COVID 19 definiscono il lavoro agile “ modalità̀ ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa e viene limitata la presenza del personale negli uffici ai soli casi in cui la presenza fisica sia indispensabile per lo svolgimento delle predette attività̀, adottando forme di rotazione dei dipendenti per garantire un contingente minimo di personale da porre a presidio di ciascun ufficio, assicurando prioritariamente la presenza del personale con qualifica dirigenziale in funzione del proprio ruolo di coordinamento”.

Questi provvedimenti hanno trovato il mondo della pubblica amministrazione in situazioni molto diverse: alcune PA erano esperte, avevano concluso da tempo la fase di sperimentazione e, ormai con numeri significativi di lavoratori agili, stavano lavorando alla messa a sistema del lavoro agile in modalità ordinaria, prevedendo anche l’aggiornamento delle policy in vigore e l’avvio di un sistema di monitoraggio sistematico. Molte avevano invece avviato le sperimentazioni solo più recentemente e stavano testando il lavoro agile con prudenza, con piccoli gruppi di dipendenti selezionati. Altre infine, avevano avviato “un lavoro interno di riflessione e di elaborazione ma non avevano ancora attivato alcuna sperimentazione”. 

Secondo i primi dati raccolti dalle nostre PA di progetto in pochi giorni la platea dei lavoratori agili si è ampliata, raggiungendo il 58% dei lavoratori a marzo 2020. Anche i dati raccolti dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri nelle Regioni Italiane e dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, come evidenziato dall’articolo di M. Zizza, rilevano un aumento esponenziale di smart worker. 

Ricordiamo però che il lavoro agile straordinario, la modalità di lavoro che tutti stiamo sperimentando in questo periodo, non corrisponde al lavoro agile ordinario. Siamo infatti in presenza di un modello ibrido di lavoro agile: è lavoro da casa, che si confonde sempre di più con il telelavoro domiciliare! La difficoltà di definire in modo chiaro le caratteristiche di ciò che stiamo vivendo in questo periodo, emerge dal linguaggio dei giornalisti, dei commentatori televisivi, dei nostri politici e di alcuni dei nostri referenti che spesso definiscono lo smart working come lavoro da casa. L’emergenza ha infatti reso obbligatorio lavorare da casa, togliendo quindi alcuni presupposti chiave del lavoro agile, primi tra tutti, la volontarietà e la flessibilità di luogo e orario di lavoro.

Inoltre, il fatto che in questo periodo, anche le scuole, le università siano chiuse, ha limitato anche l’elemento di armonizzazione tra la vita privata e vita di lavoro: da più di un mese famiglie intere sono costrette in casa, con i genitori che lavorano e figli che studiano contemporaneamente, trovandosi spesso a condividere gli spazi e i dispositivi. Spazio e tempo familiare si intrecciano inesorabilmente con i tempi di lavoro provocando stress e fatica. 

Inoltre le difficoltà tecnologiche, sia in termini di infrastrutture, che di strumentazione disponibile e di competenze informatiche del personale, hanno certamente complicato la situazione, rendendo per alcuni molto difficile comunicare con i colleghi, coordinarsi con il responsabile e mantenere il ritmo delle attività. 

La scarsa digitalizzazione dei processi nelle PA ha inoltre reso complesso ulteriormente il lavoro per molti lavoratori. 

L’estrema straordinarietà di questa situazione ha messo a dura prova lavoratori, dirigenti e famiglie, rischiando di mettere in dubbio la positività del lavoro agile. Quanti dirigenti e dipendenti torneranno da questa esperienza dicendo che il lavoro agile non funziona, perché lavorare da casa non garantisce la produttività, crea stress e isolamento? 

Se da un lato stiamo affrontando queste criticità, la situazione di emergenza ci sta permettendo anche di sperimentare per la prima volta delle novità straordinarie. Secondo l'Osservatorio "Lockdown - Come e perché cambiano le nostre vite" realizzato da Nomisma in collaborazione con Crif, un piccolo esercito di smart worker è attivo nella penisola. Sono quasi 2 milioni gli italiani che, a causa dell'emergenza legata alla diffusione del coronavirus, hanno iniziato a lavorare da casa e il 56% di loro non disdegnerebbe proseguire a fine serrata, seppur in maniera ridotta, con questa modalità, impegnandosi da remoto qualche giorno al mese.” 

Secondo la ricerca, il 9% degli occupati ha visto trasformata la propria abitazione in ufficio e - viene spiegato - "organizzazioni, aziende, lavoratori, sebbene forzati da una situazione di emergenza, sperimentano un nuovo modo di lavorare fatto di strumenti digitali e innovativi e accelerano un processo organizzativo e formativo che in tempi normali avrebbe richiesto anni". 

Si tratta di un traguardo raggiunto da cui le aziende e soprattutto le Pubbliche Amministrazioni non devono tornare indietro ed è questa l'opportunità da cogliere per ripensare i processi produttivi alla luce di una "cultura dello Smart Working".

Tornare alla normalità e affrontare la cosiddetta fase 2, infatti, non sarà tornare a vivere e a lavorare come prima, non solo perché dovremo convivere con il virus ma anche perché dopo queste esperienze non saremo più gli stessi e dovremo riorganizzarci per riprendere le nostre attività e la vita personale. C’è quindi da chiedersi cosa dovremo fare per analizzare cosa è accaduto in questo periodo nel mondo del lavoro, e come ristabilire un ordine nelle esperienze fatte, in modo da consolidare le scoperte e le innovazioni (tutto ciò che di buono è emerso) e correggere ciò che invece fa riferimento a un modello ibrido di lavoro agile, evitando errori e inefficienze. 

ll Telelavoro, il lavoro agile e il lavoro a casa per il lockdown 

L’idea di far lavorare i dipendenti da casa è nata negli Anni ’70 in USA, con i primi PC che, pur non disponendo di accesso alle reti, hanno fatto ipotizzare ad alcuni sociologi la possibilità di svolgere molte mansioni senza doversi recare in ufficio. Alla fine degli anni ’90, negli Stati Uniti i telelavoratori erano circa 16 milioni, mentre in Europa, grazie anche alla spinta della Commissione e delle Pubbliche amministrazioni (risalgono per esempio al 2000 l’accordo quadro nazionale italiano e al 2004 l’accordo interconfederale per il contesto europeo), le persone che lavoravano da remoto erano in quegli anni circa nove milioni. 

Il telelavoro non ha avuto la diffusione sperata e nel tempo si è sempre più caratterizzato come uno strumento per conciliare la vita personale con quella lavorativa e si è a mano a mano sviluppato sempre di più come una modalità di lavoro adatta alle operazioni più standardizzate e semplici, come ad esempio l’inserimento dati, i call center, il protocollo, etc. (attività telelavorabili) e a persone con particolari situazioni di salute o con carichi di cura familiari rilevanti. Ciò che caratterizza l’interpretazione data al telelavoro è il vincolo del lavoratore di lavorare da casa e il trasferimento da parte dell’azienda delle stesse responsabilità del posto di lavoro nella casa del dipendente. Il telelavoro è quindi attuato in una logica riduttiva basata sull’idea che il dipendente abbia una postazione fissa, ma dislocata in un luogo diverso dalla sede aziendale: a casa.

Grazie allo sviluppo tecnologico, lo Smart Working, a differenza del telelavoro, presuppone invece flessibilità e adattamento delle risorse umane in funzione degli strumenti che si hanno a disposizione. La mobilità e la flessibilità sono elementi che contraddistinguono questa modalità lavorativa da remoto, che si caratterizza per offrire la possibilità di svolgere i propri compiti virtualmente in qualsiasi luogo. Anche all’interno dell’azienda, in ambienti appositamente pensati per il co-working, sempre più spesso, nelle cosiddette huddle room, spazi dedicati a brevi riunioni e incontri. 

Lo smart working prevede una trasformazione del modello culturale e manageriale, un modo nuovo di concepire la relazione con l’organizzazione: la volontarietà di adesione, la presenza di una pianificazione delle attività attraverso un progetto condiviso tra dirigente e collaboratori che specifica obiettivi e risultati, lo sviluppo di un rapporto basato sulla fiducia tra responsabili e collaboratori e sull’autonomia e responsabilità dei dipendenti. La tecnologia gioca infine un ruolo strategico nell’abilitare e facilitare il lavoro agile, per permettere ai gruppi di lavoro di comunicare di collaborare anche a distanza. 

Le criticità affrontate 

Le esperienze in corso, anche le più virtuose, nulla avevano a che fare con i numeri raggiunti in questo periodo di emergenza COVID 19, che hanno raggiunto in molti casi anche il 90% dell’intero organico.

Molte sono state le criticità incontrate, non solo la necessità di correre contro il tempo per impostare una policy dove non era ancora prevista o aggiornarla con circolari temporanee di ampliamento, anche se i provvedimenti per fronteggiare l’emergenza hanno semplificato molto anche il percorso attuativo e le procedure amministrative necessarie. 

La tecnologia ha senz’altro rappresentato un ostacolo. Molte PA sono arrivate all’emergenza impreparate, senza infrastrutture tecnologiche adeguate e, a volte, anche senza PC disponibili, senza aver realizzato una mappatura delle tecnologie disponibili da parte dei dipendenti. Questo ha richiesto che molti dipendenti, lavorassero con i propri dispositivi personali, PC, Tablet, smartphone, connessione internet, che venivano  utilizzati nello stesso tempo da tutta la famiglia per lavorare, studiare e seguire le lezioni dai figli più grandi e per fare i compiti e intrattenere i bambini più piccoli. 

Molte amministrazioni hanno ampliato la banda larga in emergenza per garantire un maggior numero di connessioni, hanno proceduto ad attribuire VPN a tutti i lavoratori, superando quindi di fatto tutte le resistenze fino ad oggi presenti rispetto all’attivazione.

Ma la difficoltà più grande e forse meno visibile è stata ripensare il modo di lavorare; nella nostra cultura infatti prevale ancora un modello di organizzazione del lavoro basato sulla presenza fisica e sul controllo diretto dei dipendenti. La prima difficoltà per molti è stata quindi pensare e riuscire a lavorare fuori dall’ufficio. Non si tratta solo di abbandonare una routine quotidiana e gli aspetti relazionali piacevoli collegati alla vita di lavoro in ufficio, ma piuttosto di forti resistenze culturali nei confronti del lavoro agile, paure che a distanza non si riesca a coordinare un gruppo di lavoro, che i dipendenti non lavorino come in ufficio e quindi non si possa contare sulla loro collaborazione, che lo smart -working sia come un giorno di ferie o di recupero, insomma un’assenza. La nostra attività di consulenza e di accompagnamento alla sperimentazione e alla gestione del lavoro agile nel corso di quasi due anni di progetto ha dovuto affrontare, in molti casi, questo tipo di resistenze che di fatto hanno ritardato le sperimentazioni. 

Proprio la capacità di coordinamento, di attribuire obiettivi e risultati ha rappresentato una delle criticità principali. “Chi già lavorava per progetti ed obiettivi è andato avanti correttamente ma per altri è stato faticoso.” 

 La possibilità di avviare il lavoro agile senza l’obbligatorietà dell’accordo e senza un progetto ha certamente favorito la velocità di avvio e ampliamento, ma non ha eliminato nella realtà la necessità che responsabile e collaboratori concordino gli obiettivi da raggiungere, suddividano le attività e individuino i risultati da realizzare nel tempo. Questa emergenza ha messo quindi in maggior risalto una delle carenze più importanti da colmare nella pubblica amministrazione: la necessità di avviare una ri-organizzazione dei processi a partire da una programmazione di obiettivi chiari e condivisi. 

Il Covid 19 ha spazzato via tutto e le pubbliche amministrazioni hanno dovuto lanciarsi “senza rete” nel  lavoro a distanza. I dirigenti hanno dovuto fidarsi ma i dipendenti, a detta dei nostri referenti di progetto, “hanno mostrato responsabilità, autorganizzazione, dedizione al lavoro e senso di appartenenza all’amministrazione“.

Le aspettative e le competenze acquisite 

Pur ricordando ancora che quello che stiamo vivendo non è lavoro agile ma piuttosto un modello ibrido di lavoro a distanza, e nonostante si sia improvvisato molto “Questa emergenza sembra aver fatto aumentare la consapevolezza della necessità di cambiare la cultura del lavoro. E’ vecchio il modo di organizzare la PA e non risponde più alle necessità dell’oggi.”

Le nostre amministrazioni hanno sperimentato la necessità di programmare. Dai focus con le amministrazioni di progetto sull’emergenza COVID19 realizzati a inizio aprile, è emerso che le PA che avevano già avviato percorsi di lavoro agile hanno incontrato meno difficoltà a riorganizzarsi; quelle che avevano investito sulla dotazione di una infrastruttura informatica e avevano avviato un piano per la digitalizzazione dei processi, puntando quindi sull’innovazione tecnologica come fattore abilitante di un’organizzazione del lavoro più flessibile e innovativa, hanno affrontato l’emergenza con meno problemi. Dovranno però continuare a riflettere sulla necessità di lavorare per obiettivi e risultati e sul fatto che i procedimenti amministrativi e le procedure non possono e non devono essere ostacoli: quando è necessario i cambiamenti vanno fatti in tempi brevi.

In questo periodo abbiamo soprattutto imparato che si può lavorare anche da casa, senza uscire per recarsi in ufficio, che un PC portatile o un tablet, una connessione a internet e uno smartphone sono davvero sufficienti per metterci in contatto con il resto dell’ufficio, con i nostri clienti e fornitori. 

Non solo, nella maggior parte dei casi i dipendenti hanno mostrato una fortissima disponibilità a mettere a disposizione dell’organizzazione i propri dispositivi e a garantire livelli di protezione della rete secondo quanto definito da ciascuna amministrazione. 

Di fronte a un primo momento di difficoltà a gestire una situazione imprevista, alcune PA hanno iniziato a utilizzare tecnologie e modalità nuove per rendere possibile il collegamento e la collaborazione tra diversi lavoratori. 

E’ aumentato il traffico in rete in maniera esponenziale, anche i social e tutti gli strumenti di comunicazione sono stati utilizzati per chiamate collettive, WhatsApp è diventato uno strumento ordinario non solo per chattare con gli amici, ma per comunicare con i colleghi, con il gruppo di lavoro o di progetto, con il responsabile. L’utilizzo delle piattaforme collaborative si è ampliato, in questo periodo è triplicato e, in molti hanno imparato ad utilizzarle per lavorare, confrontarsi e restare in contatto, anche se a distanza, con i colleghi, per seguire moduli formativi oltre che per seguire le lezioni scolastiche con i figli, fare esercizio fisico con il gruppo della palestra, studiare, leggere guardare film e serie tv, visitare virtualmente musei e mostre d’arte. 

Questo miglioramento complessivo del livello delle competenze di utilizzo delle tecnologie è quindi uno dei risultati indiretti di questa emergenza e conferma come il lavoro agile sia una leva fondamentale anche per la riduzione del digital divide.

In questo periodo di vita forzata in cattività, in molti si sono dedicati alla formazione, hanno trovato il tempo per frequentare corsi online, webinar di aggiornamento specialistico, approfondire lo studio delle lingue straniere. In molti casi le PA stesse hanno fornito ai propri dipendenti indicazioni, materiali, cataloghi formativi on-line. In alcuni casi anche categorie e ruoli che non potevano in regime ordinario accedere al lavoro agile, come gli autisti, gli usceri, etc. hanno avuto la possibilità di seguire corsi di formazione e di aggiornamento on line, anche di alfabetizzazione informatica, che saranno utili in previsione di un processo di riqualificazione di ruoli professionali interni. 

Secondo i dati del rapporto dell’Osservatorio lockdown, Cirf, e Nomisma, rimanere a casa è stato "in molti casi l'occasione per costruire alcuni tasselli utili per costruire il ritorno: il 28% degli italiani segue corsi di formazione on line e partecipare a webinar. Una tendenza - puntualizza sempre il rapporto - che continuerà ad essere svolta" anche dopo questa fase, "per il 32% nella stessa modalità e per il 13% in misura superiore a quella attuale. Sul tema delle competenze strategiche per la PA si fa riferimento all’articolo di Maria Paola Napoleone. 

Infine, il lockdown ha influito anche sullo sviluppo dei servizi al cittadino. In questo periodo i Comuni hanno dovuto inventare modalità per dare continuità ai servizi essenziali: non solo i servizi anagrafici e amministrativi on line ma, nonostante il COVID 19 e il distanziamento sociale, hanno dato continuità anche ai servizi culturali. Le biblioteche comunali non solo delle grandi città, ma anche di piccoli Comuni, attraverso l’utilizzo di piattaforme e app, hanno messo a disposizione dei cittadini in lockdown libri, video, film etc. 

In parte anche i servizi sociali hanno trovato nuove modalità di erogazione dei servizi: il segretariato sociale indispensabile in un momento di emergenza sanitaria e sociale come questo, ha organizzato sportelli on-line, su piattaforme web o app, dove il cittadino può trovare informazioni sui servizi, può presentare la domanda di accesso e fissare appuntamenti virtuali. I servizi sociali professionali, nonostante il caos organizzativo, hanno trovato il modo di continuare la propria attività trasformandone parte on line, monitorando ad esempio le famiglie prese in carico attraverso video chiamate, telefonate etc. 

Attualmente i servizi sociali stanno affrontando una fase di super lavoro per garantire la distribuzione dei buoni spesa alle famiglie, anche effettuando il lavoro di istruttoria della pratica a distanza. Con il COVID 19 cade un’altra certezza, quella che vede il lavoro dei servizi alla persona come un settore in cui le nuove tecnologie hanno scarso impatto e a cui non è possibile applicare il lavoro agile.  

Più in generale, a partire dalle amministrazioni coinvolte nel nostro progetto ascoltate nel corso dei focus group, i dipendenti pubblici nella difficoltà e nel lavoro a distanza hanno ritrovato l’orgoglio del lavoro pubblico, del servizio ai cittadini e al Paese e senso di appartenenza all’ente di appartenenza. 

Sul ruolo e sull’importanza di una PA vicina al cittadino e alle imprese, attenta alle esigenze di sviluppo del territorio si rimanda all’articolo di Lea Battistoni. 

Come consolidare il lavoro agile 

La pianificazione della fase 2, il cosiddetto ritorno graduale alla normalità, dovrà partire dalla consapevolezza di tutto questo capitale di esperienze, competenze, motivazioni individuali e collettive accumulato in un momento così difficile della nostra vita. Il problema sarà ovviamente da un lato non mortificare le aspettative di autonomia e responsabilità dei lavoratori che si sono costruite in questo periodo, ma anzi puntare a valorizzarle, dall’altro tentare di ritornare verso il “vero” lavoro agile, ricollocando quindi l’esperienza maturata con il lavoro ibrido a distanza, per superare le limitazioni poste dai regolamenti sperimentali dell’inizio, e valorizzare gli aspetti positivi del lavoro agile. Nessuno più parte da zero, perché anche con tutte le differenze, questo periodo ha fatto fare un salto nell’apprendimento digitale, organizzativo, relazionale da cui dobbiamo partire per continuare a innovare. 

Se non vogliamo sprecare i risultati raggiunti dobbiamo ricordare che il lavoro agile porta vantaggi sia a livello individuale che organizzativo secondo una logica di reciprocità.

Anche nelle realtà più avanzate emergono alcuni punti sui quali continuare a lavorare nel futuro i numeri e le percentuali di smart-worker ordinari: il lavoro agile è volontario e prevede solo alcuni giorni a settimana e al mese, è quindi indispensabile fissare dei limiti? Da questa riflessione e dall’esperienza fatta emerge la necessità di decidere, caso per caso, quanto si è in grado di “osare” in futuro. 

Vanno rafforzate le competenze manageriali di coordinatori e dirigenti pubblici, ma soprattutto dobbiamo lavorare per rafforzare Il rapporto fiduciario tra dirigente e lavoratore agile che è un punto centrale nella definizione del lavoro agile e può portare a introdurre principi di flessibilità anche rispetto all’organizzazione settimanale delle giornate di LA.

Senz’altro dovremo fare passi avanti sui progetti e gli accordi individuali che andranno sempre più orientati alla definizione di obiettivi condivisi a cui associare i risultati da raggiungere e sempre meno ad una assegnazione di attività su cui poi si chiede al collaboratore di rendicontare.  

Se non vogliamo tornare indietro, deludendo le aspettative di molti, c’è da continuare a valorizzare la formazione e l’aggiornamento on-line e lavorare sulla valutazione della performance costruendo KPI (Competenze Chiave di Performance) anche per il personale e avviando finalmente una gestione dei processi di lavoro in una logica progettuale.