
Dal 50% in alcuni casi al 90% in altri, in tutte le amministrazioni è stato inevitabile il salto in avanti del ricorso al lavoro agile “apparso sin dalle prime ore dell’emergenza come una misura dirompente e necessaria”. La situazione di partenza al 10 marzo, ed anche i punti di arrivo dopo pochi giorni o pochissime settimane, ha visto amministrazioni già dotate di strumenti normativi (regolamenti, accordi individuali, progetti), di dotazioni tecnologiche avanzate e diffuse, di formazione svolta ai dirigenti e al personale sulle modalità del lavoro agile, attivarsi in contemporanea con amministrazioni che fino ad allora non avevano ancora avviato alcun processo interno per la sperimentazione; amministrazioni già ricche di progetti di telelavoro iniziati parecchi anni or sono e/o di esperienze di lavoro agile avviate nell’ultimo biennio, anche con l’affiancamento a tutto tondo del progetto Lavoro Agile per la PA, distribuirsi tra le centinaia o migliaia di case del personale accanto a realtà in cui la remotizzazione delle attività non aveva coinvolto fino ad allora alcun dipendente.
Le testimonianze delle PA appaiono aver comprensibilmente risentito della presenza e dell’ampiezza di condizioni abilitanti per il lavoro agile, oltre che della diversa tipologia e dimensione degli enti e della diversa configurazione organizzativa.
Scontate le strategie poste in essere dalle amministrazioni che non avendo avviato la fase di sperimentazione prima dell’emergenza, nell’immediatezza laddove minore era la preparazione a monte, hanno fatto ricorso a ferie pregresse, congedi, o altri istituti come la sospensione delle attività con la dispensa dal servizio prevista dalla normativa. In tal modo, hanno avuto la possibilità di guadagnare tempo al fine di predisporre le prime procedure per adeguarsi al lavoro agile, spesso con grandi sforzi e non senza “smarrimento”.
In più di un caso di pregressa adozione, invece, il ricorso al lavoro agile è transitato immediatamente per una fase di estensione in deroga alle procedure ordinarie per i dipendenti che già avevano adottato questa modalità di lavoro, per approdare poi alla diffusione estensiva alla maggior quota possibile del personale. Oppure, avvalendosi di studi sulle mansioni compatibili svolti precedentemente nella sperimentazione, all’inizio dell’emergenza sono stati avviati al lavoro agile in primis i dipendenti a rischio di malattia, poi quelli con problemi di mobilità e poi ancora i rimanenti.
Da 7 a 186 unità di personale, da 33 a 2000, da 17 a 164, da 19 a 200, da 0 a 150 e poi 300, da 4 a 470, da 85 a 1200, da 0 a 1280: numeri che in ordine sparso non hanno alcun valore statistico ma offrono l’immediata percezione del boom del lavoro agile durante l’emergenza, boom che ha portato dallo 0% al 50% del personale a lavorare da casa, o dall’1 all’80% o dal 10-15% ad oltre il 90-95%, in “una corsa contro il tempo” per approntare, benché gradualmente, le procedure necessarie, fino a poter dichiarare che “di fatto negli uffici non c’è più nessuno” oppure “le sedi sono chiuse” ma il lavoro continua.
Chi è rimasto fuori dal Lavoro Agile?
Le sedi sono chiuse, ma qualcuno è rimasto fuori dal Lavoro Agile. Tra le amministrazioni, sono diverse le tipologie di personale che non hanno potuto usufruire del lavoro agile neppure in emergenza: il personale delle segreterie politiche, quello di polizia locale, di assistenza informatica, sorveglianza, centralino, ma anche assistenti sociali ed educatori, autisti.
Per le figure professionali più vincolate al territorio o all’utenza diretta, in alcuni comuni si sono stabiliti dei turni per cui, ad esempio, la metà del personale in servizio ha lavorato per 15 giorni per poi alternare 15 giorni di pausa con l’altra metà, usufruendo di ferie pregresse o maturate. In altri casi, il personale con profili di lavoro non remotizzabile ma anche non necessario in fase di chiusura degli uffici, è stato destinato ad attività diverse in modo da poter lavorare da casa. Comune a più amministrazioni è stato lo sforzo di omologare le modalità di lavoro agile al proprio interno, con il supporto decisivo delle strutture delle Risorse umane che hanno cercato in molti casi di adottare ulteriori soluzioni per ampliare le potenzialità di lavorare da casa.
Quali ostacoli
Rigida struttura organizzativa dell’amministrazione, tipologia dei servizi forniti al cittadino, carenze tecnologiche ed informatiche e analfabetismo digitale, sono questi gli ostacoli maggiori che alcune amministrazioni hanno dovuto superare facendo uno sforzo sovrumano investendo tempestivamente in IT e in smart learning.
Molto ha inciso, come comprensibile, la tipologia di amministrazione, laddove i comuni con maggiori servizi diretto ai cittadini e servizi sul territorio hanno in partenza minore potenzialità immediata di lavoro da casa, ma soprattutto, come emerso dalle testimonianze, hanno giocato un ruolo decisivo le innovazioni tecnologiche dedicate, “rafforzate in questa occasione” per far fronte alla carenza di Information Technology con investimenti eccezionali.
In casi non rari “non c’era la preparazione e tanto meno la predisposizione di un sistema informatico adeguato rendendo possibili solo pochissimi accessi alla rete”, rendendo quindi necessario utilizzare dispositivi personali. Tuttavia, “solo grazie a questa sperimentazione forzata è stato possibile capire alcune criticità organizzative per l’avvio corretto dello smart working.”
Se le difficoltà iniziali sono state soprattutto legate all’infrastruttura tecnologica (VPN carenti, computer insufficienti, connessione scarsa o talvolta assente) inducendo a lavorare a distanza soprattutto con utilizzo di posta elettronica e telefono, le strutture dell’IT delle amministrazioni si sono nel contempo dimostrate spesso in grado di reagire con prontezza, assicurando in tempi rapidi, ad esempio, l’accesso a cartelle condivise, sistemi operativi con l’attivazione di VPN e accesso diretto al cloud.
Risorse umane
Certo non meno rilevante è stato lo sforzo compiuto dal management e dalle strutture responsabili delle risorse umane nel coinvolgere numeri così altri di lavoratori e dirigenti inizialmente refrattari all’idea di lavorare da casa.
L’applicazione del Lavoro Agile in maniera così massiccia, infatti, ha incontrato numerosi ostacoli soprattutto nella resistenza iniziale espressa dai dirigenti.
“Avevamo incontrato numerosi oppositori tra i lavoratori e sembrava molto difficile avviare le sperimentazioni di lavoro agile, soprattutto a causa delle resistenze espresse dai responsabili; ma ora la situazione è cambiata”. “Dall’iniziale scetticismo da parte di dirigenti e posizione organizzative che in un primo tempo ha spinto per il ricorso a ferie e permessi di vario tipo, adesso questi stanno cambiando idea, anche grazie alla realizzazione di webinar rivolti a dirigenti e dipendenti”.
La formazione precedente svolta dalle amministrazioni partecipanti al progetto Lavoro Agile per la PA o già autonomamente attive su questo fronte, ha preparato un terreno fertile - pur se a macchia di leopardo – per la diffusione del lavoro agile; ma anche gli enti che sono partiti da zero hanno puntato sull’informazione e la formazione a distanza per colmare parte del gap di competenze e di cultura digitale. Helpdesk delle RU, attivazione di sportello psicologico a disposizione dei lavoratori con difficoltà nel vivere le conseguenze dell’isolamento domestico, creazione di gruppi o di coppie di lavoro a distanza, stanno contribuendo a superare le maggiori difficoltà del lavoro agile (sebbene vista la contingenza sia più corretto parlare di lavoro stabile da casa dato, considerata la rigidità della sede domestica e la mancanza di volontà individuale che la connota e la contrappone alla flessibilità intrinseca nel concetto originario come nella normativa in vigore).
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