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Miti sfatati, assunti confermati

Di Delia Zingarelli

Il repentino passaggio da una situazione di lavoro agile opzionale nelle diverse soluzioni consentite dalla tecnologia, come sperimentato in tante Amministrazioni aderenti al progetto Lavoro Agile per il futuro della PA, ad una situazione di lavoro da casa necessario per il distanziamento sociale, come descritto negli articoli di questa e della precedente newsletter, sollecita la verifica di alcuni assunti sul lavoro agile, quasi dei miti che la prova dei fatti conferma o smentisce. Proviamo a illustrare i più comuni, lasciando aperta la riflessione per le scelte decisive che faremo nel prossimo futuro perché non sia un ritorno al passato.

 

 

 

Il lavoro agile comporta minore produttività nelle attività svolte in remoto giacché impedisce il controllo in presenza 

Gli incontri avuti presso le Amministrazioni partecipanti al Progetto durante la sperimentazione hanno tutti confermato livelli di produttività almeno uguali (e molto spesso maggiori) da parte dei dipendenti in LA, come testimoniato da questi stessi e soprattutto dai/dalle loro dirigenti.

Trattandosi di sperimentazione su base volontaria ancora per piccolissimi numeri di dirigenti maggiormente aperti all’innovazione e di collaboratori/trici legati da rapporti di fiducia, oltre che dotati dei requisiti previsti dai rispettivi regolamenti, questo risultato potrebbe essere considerato una “profezia che si autoavvera” come descritta da Merton (benché ormai avveratasi costantemente già negli ultimi trent’anni di telelavoro). L’emergenza COVID -19 sta eliminando nei fatti questo elemento di scetticismo, registrando piuttosto in tutte le Amministrazioni una reazione positiva in termini di produttività complessiva sui grandi numeri di dipendenti coinvolti (tra il 50% e il 90% del personale delle diverse amministrazioni, partecipanti e non al Progetto). Diverse amministrazioni ci hanno segnalato l’entusiasmo delle lavoratrici e dei lavoratori ma non mancano di certo i casi di overworking, laddove, piuttosto che lavorare di meno come erroneamente si è ritenuto da più parti considerando “in ferie” i lavoratori agili, questi ultimi lavorano e producono a casa molto più che in ufficio per rispondere alle esigenze più pressanti.

Restano certamente da mettere a sistema i metodi di valutazione delle attività svolte in remoto, che alcuni dirigenti hanno programmato nella sperimentazione ordinaria e molti altri stanno invece adottando in emergenza, per arrivare a un vero lavoro per obiettivi e alla conseguente verifica dei risultati sganciata dal controllo in presenza dei collaboratori come metro di misura della loro produttività. L’equazione fallace “tempo di presenza in ufficio = quantità e qualità di lavoro svolto” potrà finalmente cedere il passo all’equazione virtuosa “efficacia del lavoro ovunque sia svolto = risultati conseguiti rispetto ai risultati attesi”, in termini sia quantitativi che qualitativi, con la contemporanea e necessaria messa in evidenza delle risorse e dei limiti del contesto organizzativo come condizioni abilitanti oppure ostacolanti per la resa ottimale dei servizi.

Nel lavoro agile non è possibile la collaborazione di gruppo perché è una modalità di lavoro puramente individuale

Questo assunto dovrebbe essere stato sfatato agli occhi dei cittadini prima che della dirigenza, pubblica come privata, dagli esempi di lavoro di gruppo da remoto che in tutti i campi abbiamo visto operare nel periodo di emergenza COVID-19: da quartetti di musica da camera a vertici di leader europei, da simulazioni di gare ciclistiche a team di ricercatori a livello mondiale. Anche la pubblica amministrazione ha dovuto sperimentare le possibilità e le difficoltà di collaborare a distanza, basate su due condizioni ognuna delle quali necessaria ma non sufficiente, anzi tre: la disponibilità di una tecnologia adeguata in termini di dispositivi, programmi, applicazioni e connessioni efficienti; la volontà dei singoli di collaborare a distanza con altri colleghi/collaboratori/responsabili, necessaria ma per niente scontata nel LA così come per niente scontata è sempre stata nelle sedi tradizionali di lavoro; infine, la competenza digitale essenziale per gestire tecnologie di cooperazione a distanza, ancora poco diffusa a tutti i livelli e in tutte le categorie. Non dimentichiamo che già all’inizio di questo secolo, l’espressione internazionale per indicare il “vecchio” telelavoro era “cooperative e.working”, a porre l’accento sulla comunione di intenti e di sforzi collettivi piuttosto che sulla separazione di spazi e di tempi individuali. 

Come evidenziato anche dal contributo di Patrizia Di Santo, l’accento posto sulla forte motivazione della maggioranza del personale pubblico a gestire prontamente nel periodo di emergenza la propria attività individuale verso obiettivi comuni a unità organizzative e gruppi di lavoro interdipendenti è un banco di prova per il rafforzamento della cooperazione finalizzata al servizio ai cittadini.

Il lavoro agile si può applicare soltanto ad attività esecutive di bassa qualificazione o comunque ad attività ben quantificabili

In parte delle Amministrazioni destinatarie del progetto Lavoro Agile per il futuro della PA, le sperimentazioni realizzate tra agosto 2019 (o anche in periodi antecedenti l’avvio dell’affiancamento del RTI) e febbraio 2020 hanno risentito di questo retaggio concettuale, puntando su attività che richiedessero competenze medio-basse e dessero luogo a prodotti numerabili e quindi programmabili a monte e controllabili a valle con grande facilità, sia da parte del lavoratore agile che del suo responsabile (ad esempio, protocollo informatico, rilevazione presenze,…). In contemporanea, altre sperimentazioni si sono concentrate anche in settori di alte professionalità tecnico-scientifiche (informatici, ingegneri) in cui il lavoro per progetti ha già forti radici nell’operato quotidiano e la responsabilizzazione sugli obiettivi è connaturata alla competenza dei profili interessati (come in molte amministrazioni locali destinatarie del progetto), oppure in settori finalizzati alla elaborazione di atti e documenti complessi delle amministrazioni, meno contabilizzabili per unità di prodotto quanto piuttosto valutabili per complessità, qualità e tempestività (pareri legali, delibere, relazioni…). L’esperienza emergenziale sanitaria che ha costretto dagli inizi di marzo 2020 fino ad oltre l’80% del personale totale di molte Amministrazioni a restare a casa (a volte nel giro di sole 48-72 ore) ha messo alla prova dei fatti la validità del lavoro da remoto anche per quelle attività complesse che comportano competenze di livello medio-alto o alto assimilabili ai profili dei professionisti esterni al mondo del pubblico impiego (consulenti legali, programmatori, esperti giuridici, psicologi, commercialisti, medici, ...), con esiti dichiarati esplicitamente positivi in corso d’opera, spesso in maniera imprevista dai più scettici ma onesti testimoni interpellati. 

Il sistematico lavoro di monitoraggio in corso ad aprile 2020 a carico del progetto Lavoro Agile per il futuro della PA e le diverse valutazioni interne alle singole Amministrazioni offriranno sicuramente una casistica molto ricca e complessa di attività e di ruoli gestiti a distanza, evidenziando relativi limiti e possibilità di perfezionamento a partire dalla pratica emergenziale. Sarà anche possibile rilevare gli interventi con cui parecchie Amministrazioni hanno ridistribuito attività realizzabili in remoto a dipendenti abitualmente incaricati di attività presso sedi fisiche o sul territorio, come autisti o addetti alle portinerie, con iniziative prima ritenute impossibili in molte sperimentazioni ed ora non solo consentite ma, anzi, auspicate dalla stessa citata normativa che ha reso il lavoro agile modalità ordinaria di lavoro.

I dirigenti non possono fare lavoro agile 

Proprio la pratica emergenziale ha stressato la poca fondatezza della preclusione al lavoro agile per le figure dirigenziali, da sempre considerato dai più impossibile o, quanto meno, molto rischioso per la necessità di presenza fisica nella sede tradizionale di lavoro al fine di interloquire faccia a faccia con i collaboratori, reagire prontamente a esigenze non programmabili del lavoro o richieste dei vertici, avere a disposizione in tempi rapidi risorse dell’Amministrazione non raggiungibili da remoto.

Già nel periodo di sperimentazione programmata, non pochi dirigenti sono stati e si sono coinvolti spontaneamente nel lavoro agile con esiti positivi in termini sia di produttività individuale, che di coordinamento delle risorse umane, che di reperibilità nei confronti dell’Amministrazione (sia in Amministrazioni centrali che locali) anche se almeno altrettanti si sono dichiarati ovunque contrari per motivi assimilabili a quelli citati.

Il LA in emergenza ha posto tutta la dirigenza di fronte a una decisione obbligata che appare in molti casi aver rivelato opportunità inattese di agire il ruolo dirigenziale senza la costante compresenza fisica con i collaboratori e con i vertici dell’Amministrazione. Nello stesso tempo, va evidenziata la necessità di non passare da un estremo all’altro del continuum “sempre in sede-sempre distanti dalla sede”. I risultati della citata survey in corso nell’ambito del progetto Lavoro Agile per la PA offriranno elementi preziosi di valutazione dell’esperienza da parte di un ampio panel di responsabili di strutture pubbliche. A loro nel prossimo futuro va la sfida per un rinnovamento dell’organizzazione pubblica nello scenario auspicato nell’articolo di Lea Battistoni.

Il lavoro agile favorisce l’isolamento e danneggia le relazioni sociali sul lavoro

Al contrario di alcuni degli elementi di riflessione precedenti, su questo aspetto le differenze tra la sperimentazione programmata e il lavoro agile in emergenza sono evidenti. Le sperimentazioni in atto fino a febbraio 2020 hanno contemplato raramente più di due giorni a settimana di lavoro a distanza (spesso uno soltanto!), annullando di fatto ogni rischio di perdita di contatto con i colleghi e valorizzando invece l’opportunità sia pure occasionale di una maggiore concentrazione, legata proprio all’isolamento temporaneo dall’ambiente lavorativo, ambiente non scelto nella grande maggioranza dei lavoratori dipendenti, a volte neanche gradito ai singoli. 

Il lavoro agile in emergenza ha, invece, avuto proprio nel distanziamento fisico – obbligato e assoluto quanto repentino - l’obiettivo prioritario del contrasto al contagio epidemico in corso: inevitabili le conseguenze negative dell’isolamento continuativo per molte settimane di donne e di uomini di ogni profilo e livello professionale, in termini di relazioni interpersonali con colleghi e colleghe, supporto lavorativo occasionale, scambio professionale informale, associazionismo in luoghi collettivi. Benché molto abbiano potuto i canali di comunicazione a distanza e i social network nel compensare il distanziamento fisico con nuove – e a volte inattese – forme di interazione, l’interruzione drastica della convivenza in ufficio è stata indubbiamente un elemento critico del lavoro agile in emergenza, interruzione d’altro canto mai auspicata nelle sperimentazioni anche più avanzate di lavoro dipendente da remoto. Resta l’occasione preziosa per una riflessione a livello sia individuale che organizzativo - con esiti magari sorprendenti per entrambi - sulle competenze lavorative di ognuno in termini di autonomia gestionale e sulle capacità di creare, mantenere e sviluppare relazioni sociali positive sia in presenza che a distanza. Tutti elementi spesso trascurati nella quotidiana pratica organizzativa, ma di fondamentale importanza nel lavoro agile e nel lavoro collettivo tout court, altrettanto spesso lasciati inconsapevolmente a percorsi di apprendimento non formali o anche informali, più che mai nella situazione di distanziamento emergenziale.

 

Il lavoro agile favorisce la conciliazione tra lavoro e vita privata

Anche in questo caso il lavoro agile in emergenza COVID-19 ha costituito una forzatura non programmata rispetto alle numerose sperimentazioni di lavoro a distanza degli ultimissimi anni e degli ultimi decenni con diverse modalità. Telelavoro e smart working hanno avuto sempre come obiettivo prioritario la possibilità di armonizzare meglio la vita di lavoro con la vita privata di singoli dipendenti – più spesso donne vincolate da un doppio carico di lavoro - consentendo di ridurre i tempi di spostamento, di essere maggiormente vicini a familiari (minori, anziani, disabili) bisognosi di cura o di compagnia. A tale obiettivo si è affiancata sempre più forte la volontà di maggiore efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. In questa direzione le sperimentazioni susseguitesi – tutte volontarie su domanda delle persone interessate – hanno registrato assoluta soddisfazione. Al contrario, l’emergenza ha costretto a svolgere l’attività lavorativa soltanto da casa, con disposizione unilaterale dall’Amministrazione (come d’altronde avvenuto sempre per il lavoro in sedi concentrate, sin dalla rivoluzione industriale!): ciò a prescindere da attitudini personali, composizione dei nuclei familiari, disponibilità di spazi domestici, ripartizione di genere dei ruoli di cura. L’effetto è stato quello di una convivenza forzata h24 di tutti i componenti della famiglia mononucleare o allargata che fosse, a volte con impegni conflittuali di lavoro e di studio tra i diversi membri costretti a negoziare – magari stabilendo turni - l’utilizzo di stanze, di tavoli, di apparecchi elettronici, destinati al lavoro agile per l’Amministrazione o per l’azienda piuttosto che alla teledidattica per gli studenti dalla scuola materna all’Università.

Al di là della nutrita vignettistica fiorita nei canali social - che peraltro ben ha esemplificato situazioni esilaranti quanto reali dello smart working obbligatorio – la casistica della conciliazione in emergenza è ampia quanto quella delle modalità di convivenza, praticamente infinita anche nella presunta normalità. 

Discorso a parte meriterebbero le situazioni familiari critiche per motivi di salute fisica, di rapporti conflittuali tra i diversi membri, di disagio psicologico o dipendenze di alcuni di essi, sulle quali il distanziamento sta certamente avendo implicazioni di grande rischio, ben a prescindere dalla modalità di lavoro dei suoi componenti. 

Resta per tutti la raccomandazione per il prossimo futuro di progettare al meglio le modalità di lavoro in ufficio e da remoto (domicilio, sedi di coworking, lavoro mobile) ponendo molta attenzione alle componenti che entrano in gioco nel rendere permeabili i confini lavoro-privato, senza commistioni pericolose tra vita di lavoro-vita personale. Da qui, ancora - come ribadito nell’articolo di Maria Paola Napoleone - la necessità di competenze nuove e rinnovate per gestire il lavoro con modelli agili nelle soluzioni e, quindi, molto rigorosi nei principi, per la salvaguardia del benessere individuale di donne e di uomini. Se il multitasking nella PA come nelle aziende è oggi necessario, il multiworking tra lavoro e famiglia è deleterio: accanto alla maggiore capacità di gestire relazioni ed emozioni con competenze non cognitive, quando il lavoro rientra nelle case – anche per scelta – anche esigenze di sensibilizzazione dei familiari sul contesto lavorativo ampliato oltre i confini aziendali diventano fondamentali.